Morire a 27 anni è una tragedia che non conosce parole consolatorie, non c’è morte e morte, c’è sola la morte, una, e quando arriva ti lascia attonito. Per Amy Winehouse il tempo si era arrestato lì dove lei aveva voluto, imprigionato in una solitudine profonda. Che sia stato alcool o droga, poi, che importa, quello che resta è che un altro nome si aggiunge, oggi, ad una folta lista che altro non è se non la testimonianza di un grido disperato e di una folle corsa verso la pace dell’autodistruzione. Una contraddizione in termini, eppure, esiste, è reale, è figlia legittima di un tempo che con sé porta anche questi tristi finali. Scelte contestabili, condannabili, ma incomprensibilmente attese. Potremmo andare avanti per giorni a raccontare la tragica storia di una delle più grandi voci del rock blues degli ultimi decenni ma non è di certo la retorica che potrebbe completare un puzzle irrisolvibile se non agli occhi di chi la discesa verso l’inferno l’ha vissuta.
Fiori, orsacchiotti e candele lasciate per lei ai piedi della residenza che l’ha accolta per l’ultima volta, amici, ammiratori, personaggi pubblici. Tante le parole di dolore e affetto dei fan sulla rete. 47.370 solo i commenti dell’ultima foto pubblicata sul suo profilo facebook, su twitter, invece, tra i primi a commentare, la cantante e attrice Kelly Osbourne.
Amy è morta a soli e non c’è un solo buon motivo per dissipare un simile talento, come non ce n’è per distruggere la propria vita. La circostanza ha un grande significato, però, e dovrebbe far riflettere ognuno di noi. “Noi che ce l’aspettavamo…” questo è stato scritto ovunque da due giorni a questa parte. Ma si può dire veramente una cosa del genere?? Forse avremmo dovuto ascoltare meglio le sue canzoni, anziché cercare di creare il culto di una vita vissuta tra genio e sregolatezza.